Avvolti da un’ipocrisia palpabile, siamo a celebrare una nuova giornata mondiale contro l’omofobia. Nel mio Paese c’è ormai poco da dire se non un nulla di fatto sul fronte legislativo, nonostante la costituzione dovrebbe garantire pari diritti e dignità ad ogni cittadino. Noi continuiamo ad essere cittadini di serie B. Siamo ancora a discutere della validità dei Gay Pride come strumento di lotta e riconoscimento politico; quello resta l’unico manifesto di una comunità che è, anche quello, ma non sono quello. E’ una comunità variegata nelle sue molteplici attività. Un insieme di giovani e meno giovani e famiglie che non cessano di apportare contributi culturali, artistici, sociali, sportivi, politici, strutturali alla società di questo Paese . Attivisti che impiegano il loro tempo a costruire una società migliore in termini di rispetto e pari dignità. Ma i detrattori, i moralisti preferiscono non vedere che le nostre emozioni di persone che amano sono identiche allle loro , continuano a correlare il nostro amore al disgusto e con esso l’azione di derisione, neppure in faccia ma alle spalle nella maggior parte dei casi; proseguono con atti violenza gratuita perchè in un attimo di tenerezza osiamo prendere per mano il nostro compagno, violenza che a volte toglie la vita. Questo è ciò che mi sento di dire in questa giornata, orgoglioso come sempre di non dimenticare i cadaveri, i detenuti, i violentati, i torturati, che hanno pagato con la vita l’audacia di esser se stessi in tempi e luoghi diversi. Ho scelto una pagina drammatica del diario di Reinaldo Arenas, scritto durante la detenzione nel carcere del Morro all’Avana durante la rivoluzione cubana. Ogni riga è violenza che si incunea nella mente di chi come me, non può permettersi di dimenticare, rispettare e tacere. B.C.
“…Quando arrivai al Morro molti prigionieri riconobbero in me l’assassino, lo stupratore e l’agente della CIA; fui circondato da un’aureola di rispettabilità, anche tra i vari assassini. E così dormii in terra soltanto la prima notte, nella sezione numero sette dove mi avevano internato, una sezione che non era riservata agli omosessuali ma a colpevoli di vari crimini. Gli omosessuali erano nelle due peggiori sezioni del Morro, al piano interrato : due buchi fetidi e senza gabinetto che, quando si alzava la marea si allagavano. Gli omosessuali non venivano trattati come esseri umani, ma come bestie. Erano gli ultimi ad andare a mangiare e così potevamo vederli: li picchiavano qualunque cosa facessero, per quanto insignificante. I soldati che ci facevano la guardia e che si facevano chiamare “combattenti” erano reclute in punizione che sfogavano tutta la loro furia contro gli omosessuali. Chiaramenti non li chiamavano omosessuali, ma froci o, nel migliore dei casi checche. Le celle delle checche erano come il girone più basso dell’inferno. Molti di quegli omosessuali erano gente tremenda spinta dalla discriminazione e dalla miseria a commettere delitti comuni. E comunque non avevano perso il senso dell’umorismo; si facevano gonne con le lenzuola, chiedevano ai parenti di portargli del lucido da scarpe che usavano per truccarsi e farsi profonde occhiaie; si truccavano perfino con la calce dei muri. Talvolta, quando uscivano a prendere il sole sulla terrazza del Morro, era un vero e proprio spettacolo. Il sole era un privilegio concesso a rate ai prigionieri: ci facevano uscire una volta al mese o ogni quindici giorni, per un’ora sola. Le checche partecipavano all’evento come se fosse uno dei più straordinari a cui avessero assistito in tutta la loro vita, e in realtà lo era, quasi: dalla terrazza si vedevano il sole, il mare e perfino L’Avana, la città in cui tutti avevano sofferto tanto, ma che da lì ci sembrava il paradiso. Per quelle uscite le checche si agghindavano tutte, si vestivano con gli stracci più strani, si facevano parrucche con funi trovate chissà dove, si truccavano e si mettevano tacchi fatti con pezzi di legno, che chiamavano zoccoli. Non avevano più nulla da perdere, e forse non avevano mai avuto niente da perdere; perciò potevano permettersi il lusso di esser se stesse, di dividersi in diverse fazioni, di scherzare, perfino di dire qualcosa ai “combattenti”. Gli poteva costare la perdita dell’ora di sole per tre mesi, la cosa peggiore che potesse capitare ad un carcerato, visto che al sole si potevano togliere le cimici, i pidocchi e gli acari, degli insetti che si annidano sotto la pelle e ti rendono la vita impossibile, impedendoti di dormire. La mia branda era l’ultima della fila, vicina a un lucernaio. Soffrivo il freddo quando pioveva e l’acqua mi cadeva addosso; la luce del faro del Morro entrava ogni due o tre minuti da quel buco e mi illuminava la faccia; era difficile dormire con quell’enorme faro che mi girava sulla testa, e con il rumore dei prigionieri e le luci della prigione, che non venivano mai spente. Dormivo abbracciato all’Iliade, annusando le sue pagine… “
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Ciao !
Ti ringrazio del pensiero che non può farmi che piacere.
Buona giornata
Bruno