Sapevo di dover affrontare il peggio, gli altri volontari me l’hanno descritto come una sferzata di vento ghiacciato sul volto.
Ho lasciato il turno al Centro per recarmi alla stazione di Przemyls lì, arrivano da Leopoli in treno ancora donne, anziani, bambini e ragazzi sotto i diciotto anni, uomini non se ne vedono.
La stazione, “stacja kolejowa” come la chiamano qua, è incastonata in una piccola piazzetta del centro, a farle da anticamera una fila ordinata di piante e ai lati caffè e bar ordinati.
Arrivando con la macchina, la strada che vi conduce, è transennata dalla polizia e questo fa subito pensare. Ci arrivo a piedi dopo aver parcheggiato, si presenta bianca, bella sotto i raggi del sole, come a voler proteggere il temporale che dentro incombe da settimane. Ai lati auto di televisioni sul posto, molta polizia e una tenda per la registrazione sanitaria, persone davvero poche.
È solo quando apro la porta d’ingresso che sento mancare il fiato. Solo profughi in fila, cameramen, giornalisti di televisioni straniere e fotoreporter seduti a terra alla ricerca dell’inquadratura migliore con l’obiettivo puntato sul dramma, tutti in un risicato spazio vitale.
In mezzo a loro, figure femminili giovani e anziane vagano smarrite, chi cercando una tazza di minestra chi, un posto a terra dove sedere e far dormire il bambino.
Cerco di farmi spazio, mi sento abominevole col cellulare in mano, lo ripongo nella tasca per rispetto, farò qualche scatto senza posa e qualità mentre cammino quando ritorno per uscire.
Ovunque ho sguardi puntati addosso, mi muovo nei corridoi, passo davanti alle sale d’aspetto, alla biglietteria, tutto è stato trasformato in luogo d’assistenza. I volontari, molti, ancora una volta sono figure benedette dalla provvidenza, sorridono, prendono mani e porgono, porgono aiuto e speranza.
Mentre fuori cammino per raggiungere i sottopassaggi che portano ai binari, incrocio, sacerdoti, frati, suore, scout non hanno il gilet fosforescente dei volontari ma lo sono senza sosta, hanno volti stanchi, camminano lentamente e mentre lo fanno cercano gli occhi di qualcuno che chiama.
La fila ai bagni è notevole, l’odore seppur all’esterno è intenso prima o poi il problema igienico sanitario non tarderà a farsi sentire.
Quelle che vedo sono anime senza tempo, disperse nel loro dignitoso dolore, non si sentono urla, grida, neppure con la presenza di bambini, quasi tutti ammutoliti, alla ricerca affannosa di un perché tutto questo sia stato possibile.
Volontari non più giovanissimi, con una sensibilità straordinaria, cercano di convincere Alexandra con il suo bimbo ad andare verso l’autobus che la porterà al Centro Umanitario della Città. Desiste, non vuole muoversi senza prima sapere dove la porteranno dopo.
Inutile spiegarle che prima deve ricevere assistenza e solo l’indomani partirà. Di fronte all’insistenza il volontario capo interviene e le butta lì: “andrete in Danimarca”. Sembra convinta e mentre sta per salire sull’autobus, squilla il cellulare, è il marito da Leopoli, le dice di non andare di chiedere di andare in Germania, lì sarà davvero al sicuro.
Scene di ordinario dramma, dove il tempo, poco, è protagonista di futuri incerti.
Dopo aver raccolto qualche storia e scattato poche fotografie per futura memoria, con rispetto mi riavvio all’uscita.
È lì, vicino alla porta che vedo accovacciato un vecchio con un bambino, il suo volto mi colpisce d’intensità, smarrimento e sofferenza, ecco… la sferzata di vento ghiacciato di cui mi parlavano.
Non posso dimenticarlo e senza si accorga ne immortalo l’immagine a simbolo di questo insensato dramma umanitario.
Con gli occhi umidi varco la porta, il sole, il piazzale quasi vuoto… sono uscito dall’inferno.