Ieri sera l’Italia e oggi il resto del mondo, ha ascoltato il pensiero del Capo della Chiesa cattolica sui forti temi che caratterizzano il nostro tempo.
Papa Francesco ha lasciato però orme importanti nel corso della sua esposizione.
La prima di carattere comunicativo, il messaggio arriva chiaro perché senza termini accademici che tanto piacciono agli elevati intellettuali e poco, ai tanti ultimi in necessità di risposte e guida; la seconda, ancor più incisiva, torna ad invocare l’abbandono temporaneo dell’io per il più efficace noi.
Dopo l’intervista, in onda un film in cui, oltre a narrare la storia ed origini del Papa, il regista ha fatto luce sugli anni bui della dittatura argentina.
Le dittature, rosse bianche o nere, sono l’infamia degli uomini al cui confronto Adamo ed Eva erano bambini divertiti dentro Gardaland.
Francesco, che quell’orrore l’ha vissuto quanto Giovanni Paolo II in altra ideologia, prende spunto da quello stato di necessità estremo per incitare all’unità, con vigore rievoca la frase pronunciata a marzo in una Piazza S. Pietro deserta : “Nessuno si salva da solo”.
Allora parto dalla violenza inaudita di quelle immagini di rabbia, rancore e torture per fare una considerazione veloce sul nostro senso di appartenenza ad una comunità.
Quale è il metro di misura del nostro coraggio per non cadere nella codardia dell’indifferenza?
Mentre vedevo uomini e donne offrire la propria casa, l’auto, la barca, ai braccati dalla dittatura, quanto gli Ebrei, Uiguri, Kazaki, Curdi, ecc del nostro tempo, pensavo che dietro ognuno di loro, rischiando la vita per salvarne qualcun’altra, c’erano dei probabili figli, mariti, mogli, padri o madri, un lavoro, dei soldi, un’esistenza costruita con dignità e fatica.
Eppure, il sopravvivere trasformava il banale egoismo nella forza dell’altruismo. In gioco la vita, non la noia nel vedere qualcuno allungare la mano chiedendo elemosina o un lavoro.
Mentre migliaia di italiani si adoperano per soccorrere anziani soli, disoccupati disperati e persone affamate o senza più dimora, altri, molti, ritengono il loro modesto disagio pandemico, una falsa barriera per non sentire e vedere il bisogno di chi sta sullo stesso pianerottolo, strada o quartiere.
Nel 1992, andai per RAI3 a fare un documentario sulle madri dei Desaparecidos proprio a Buoenos Aires, ricordo il racconto di una di loro.
Spiegò come il solo l’andare ogni sabato a Plaza de Mayo e stare con altre madri, le diede la forza di sopravvivere e lottare contro il regime sfidando ogni volta la morte. Quei foulard bianchi sulla testa, simbolo dei pannolini di figli scomparsi, era l’unione col desaparecidos, e lo sfregio ai fucili puntati dinnanzi al volto.
Così, ieri sera ho capito chiaro e forte quel “nessuno si salva da solo”.