Ero molto piccolo quando, accompagnando mio nonno al caffè sentivo alzare a voce e la parola, pensioni.
Ai primi anni della scuola invece, risentendola comunemente tra gli argomenti concitati degli adulti, l’avevo accostata ai piccoli alberghi dove andavamo in vacanza in Liguria o in Romagna, ma anche, alle piccole del mio Paese dove gli immigrati dal sud risiedevano per mesi: insegnanti, tecnici o impiegati delle poste.
All’arrivo del lume della ragione però, capii si trattasse di un’obbligazione corrisposta dall’INPS in base ad un rapporto giuridico con l’azienda presso la quale si lavora.
L’unica variante odierna alle esternazioni negative contro questo apparato elefantiaco dello Stato, rispetto agli anni passati, è il dubbio circa la possibilità che sopravviva e soprattutto riesca a garantire i benefici anche alle nuove generazioni.
Detto questo, mi soffermo su un momento memorabile a cui ho assistito ieri sera, durante la conferenza stampa del Presidente Conte.
Per la prima volta dopo decine di anni, i dubbi, i sospetti di milioni di italiani sono stati sgretolati.
Come potete sentire da questo stralcio di registrazione, bonariamente, il Presidente si vanta dell’efficienza operativa dell’INPS, sottolineando che per la prima volta è stato compiuto un sforzo disumano.
Lavorare ed evadere quasi undicimila domande di contributo in un mese, quando in genere per la stessa mole l’INPS ci metteva cinque anni. Forse oggi se ne sarà pentito.
E noi, poveri cittadini già provati da isolamento, morti e privazioni anche economiche, mettiamo nelle incazzature del periodo, anche la prova certa che migliaia di dipendenti INPS nostri connazionali, a parte eccezioni, hanno sempre lavorato a ritmi produttivi inesistenti tanto che, se fossero stati pagati a cottimo oggi sarebbero in fila alla Caritas.
E allora penso a tutti quei manager pubblici ma anche politici direttamente responsabili di controllo ed efficienza e provo non solo tristezza ma soprattutto una rabbia furiosa.