C’è ancora una categoria di persone di cui non abbiamo parlato in queste settimane di quarantena obbligata. Si tratta degli stacanovisti del lavoro, di quegli individui, senza distinzione di ruoli e classi sociali, in grado di trarre il maggiore appagamento della vita proprio dalla quotidiana attività.
Ne avremo incontrati tanti, sono insofferenti alle ferie, ai ponti, perfino al festivo riposo settimanale. Non necessariamente racchiudono in sé grande cultura, capacità, creatività, ma emergono in intraprendenza.
Sono fortemente concentrati sul lavoro, al punto da sminuire le relazioni, non solo sociali ma anche famigliari. Coltivare affetti in generale non li appassiona, responsabilità genitoriali o di comune relazione sentimentale è più un bisogno di allinearsi ai comportamenti della massa.
La pole position della loro comunicazione verbale è detenuta dalla frase “non ho tempo”.
Pian piano, il tempo passa, momenti come: vedere un tramonto in vacanza, tirare un calcio al pallone con il figlio, dare una carezza alla mamma anziana, viversi un weekend riscoprendo il desiderio e la bellezza di una relazione con il partner e molto altro, divengono un non vissuto pericoloso, non per la cerchia sociale ma per se stessi, avanzando così verso una inaridità emozionale inarrestabile.
La cosa più grave? Non se ne rendono conto.
Ecco che allora li immagino confinati dentro quattro mura, con soggetti a loro quasi estranei, in un tempo senza spazio, immusoniti, nervosi e sempre pronti a discutere inutilmente nell’attesa di una libertà illusoria, quella di tornare al lavoro.
Un lavoro che li ha però emarginati dal mondo, quello che loro considerano piccolo, quasi inutile e privo di appagamento.