Ad ogni giorno nuovo, ringrazio. Lo ritengo un dovere, da sempre. Fortuna è soprattutto quando e dove si nasce. Basta esser onesti con sé stessi per comprendere osservando il mondo, quanto pur nelle nostre problematiche, fortunati lo siamo. Non ho vissuto gli orrori di una guerra, non porto le cicatrici per i dolori di una dittatura o guerra civile, sono in parte libero di volgere le mie aspirazioni di vita ad obiettivi non preclusi da uno stato sociale, poiché vivo in democrazia e non in tempi ove avrei potuto esser collocato in una classe inferiore. Non subisco discriminazioni per il colore della pelle, credo nel Dio che ritengo “l’inizio e la fine di tutto” e anche non vi creda più, potrei sempre sceglierne un altro senza finire in cella o impiccato. Ho un lavoro, un tetto per dormire e sempre qualcosa per saziarmi. Oggi, le parole di “Francesco” sull’orrore dei bambini soldato mi han riportato per un momento al mio “grazie” giornaliero. Sentir parlare di violenza, di odio è una cosa, toccarlo con mano un’altra e ciò rafforza la consapevolezza di sentirsi fortunati quando questi elementi non non appartengono alla tua vita. La prima volta che lessi e compresi il significato della parola “odio” fu durante la preparazione della tesi, il tema riguardava il conflitto arabo-israeliano. Durante quei giorni in Israele e Palestina vissi a contatto con la gente, donne, uomini, ragazzi, bambini. Parlai molto con loro cercando di capire l’origine di questa violenza, frutto del seme dell’odio. La singola narrazione non provocava in me turbamenti, almeno non tanto quanto lo sguardo degli occhi del narratore di turno. Sentire bambini, dieci, dodici anni al massimo parlare di odio è terrificante. Ascoltarli proclamarsi mezzi di combattimento per vincere una causa, alla loro età è devastante quanto incredibile agli occhi di un occidentale benestante. Un odio germogliato dal dolore delle perdite di padri, madri, fratelli e sorelle e destinato a perpetuarsi all’infinito fino all’eventuale estinzione per mano del nemico. La volta successiva fu nel 1990, durante la guerra del golfo. L’Iraq invase il Kuwait e gli USA decisero di rimettere le cose a posto. In quel tempo ero ancora esterno alle produzioni redazionali per i TG Rai e venni inviato per 15 giorni in Giordania, nella troupe al seguito della giornalista Carmen LaSorella. La Giordania in quel momento non era schierata ufficialmente ma la popolazione aveva ovviamente i propri punti di vista che, piaccia o meno, tendevano maggiormente al disprezzo per l’intervento americano e quindi per noi occidentali. Ricordo le difficoltà ad ottenere interviste nonostante la giornalista schierasse tutta la sua spontaneità e professionalità. Ricordo gli insulti gratuiti che ricevemmo nelle strade, nei mercati, dentro i caffè. In quel momento capii nuovamente cosa significasse subire l’odio di qualcuno. Odio che diviene incontrollabile non solo dal dolore ma in quel caso anche dalla propaganda, dall’ideologia. L’apice di quell’odio lo toccammo con mano nel corso di un servizio girato nell’antica zona del mercato tradizionale, Kan Zeman; ad un tratto fummo circondati da un gruppo di esaltati che al grido “morte agli occidentali” iniziò a menar botte senza sosta. Solo grazie all’intervento della polizia ci salvammo da conseguenze peggiori. Oggi però, più di allora, riesco a comprendere il dramma di quelle situazioni di vita e penso a quanto sia agghiacciante tutto ciò vissuto da un bambino, uno, cento, migliaia di questi bambini che anno dopo anno si trasformano in soldati o guerriglieri.
Luis Mandaki un regista messicano, nel 2004 ha dato un suo importante contributo a questa causa, cercando di portare sul grande schermo l’interiorità, i sentimenti, l’odio che pervade ogni bambino-soldato, nato sfortunatamente in Paesi martoriati da guerre civili e non. “Innocent Voices” questo il titolo del film. E’ ambientato nel 1980 a El Salvador durante la guerra civile e si rifà all’infanzia dello scrittore Oscar Orlando Torres, è lui che dà voce a questo dramma. Chava è un ragazzo di 11 anni che vorrebbe sfuggire agli orrori della guerra civile che dilania il paese. Suo padre se ne è andato all’inizio del conflitto e sua madre Kella si guadagna da vivere per la famiglia cucendo vestiti che poi Chava vende ai negozi. Per Chava si avvicina l’età, 12 anni, in cui i militari reclutano coattivamente i ragazzi. Un giorno suo zio Beto, che si è unito alla guerriglia, viene a fargli visita. Beto vuole prendere Chava con lui per impedire che i militari lo arruolino, ma Kella è contraria. Beto, prima di partire, regala una radio a Chava e gli dice di ascoltare la stazione radio clandestina ribelle al regime “Venceremos”, della quale è vietato l’ascolto da parte dell’esercito salvadoregno; contemporaneamente tra Chava e una ragazza nella sua classe di nome Cristina Maria, figlia della nuova maestra, nasce un tenero sentimento. Una mattina i guerriglieri, durante le lezioni, occupano la scuola e attaccano l’esercito dal suo interno. Ne deriva un cruento scontro a fuoco nel quale perdono la vita alcuni bambini e altri civili e l’edificio viene così chiuso. I combattimenti e le conseguenti ritorsioni e soprusi dell’esercito sulla popolazione civile si inaspriscono e così Kella e la sua famiglia sono costretti a spostarsi fuori città a casa di sua madre in una zona più sicura.Chava compie 12 anni e poco dopo uno dei guerriglieri, mandato dallo zio Beto, lo informa, esortandolo ad avvisare le famiglie del villaggio, che il giorno seguente sarebbero giunti i soldati per il reclutamento forzato dei bambini e così, insieme ai i suoi amici, avverte gli adulti della città, mediante dei biglietti infilati sotto alle porte delle baracche nelle quali vivono, di nascondere i loro figli – che per sfuggire all’esercito si nascondono stendendosi sui tetti. Chava decide di andare a trovare Cristina Maria, ma trova la sua casa bombardata. Dopo quest’ultimo tragico evento che lo colpisce profondamente Chava decide di unirsi, insieme a tre suoi amici, alla guerriglia. Giunti all’accampamento dei guerriglieri però, durante la notte, l’esercito attacca il campo e i ragazzi vengono catturati e portati in riva ad un fiume per essere fucilati, ma all’ultimo momento, dopo che sotto ai suoi occhi due dei suoi tre amici vengono spietatamente uccisi, Chava viene salvato da un attacco della guerriglia.Tornato di corsa a casa, trova sua madre tra le rovine bruciate della loro casa. Lei decide di mandarlo all’estero per salvargli la vita e lui promette di tornare per salvare il fratellino prima che egli compia dodici anni.
Sono sempre notizie difficili da digerire, soprattutto quando si spera che il cosiddetto progresso (umano nella fattispecie) abbia portato a un cambiamento concreto ovunque. Facendo giocoforza su povertà e immotivati preconcetti, questi ragazzi vengono strappati della loro esistenza e dignità di bambini, catapultati in realtà atroci. Fa strano parlarne comodamente seduti davanti a uno schermo, incapaci di cogliere talvolta quel privilegio che non deve essere negato a nessuno, ma che invece è puntualmente preso.
Un saluto Bruno, grazie per il post!
Si Caro Andrea, li considero viaggi all’inferno…lontani mondi dalla nostra comoda realtà . Ogni tanto ricordare che per certi versi sono davvero fortunato mi scarica dalle eventuali lamentele quotidiane…il nulla rispetto a quell’inferno. Grazie come sempre . Un salutone Andrea !