“Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case e ci parla direttamente; e se una radio è libera, ma libera veramente, mi piace ancor di più perché libera la mente”. Queste parole, tratte dal testo di una canzone del 1976 di Eugenio Finardi, oggi tornano ad essere una perla preziosa come allora.
In quegli anni, furono un inno alla libertà di musica e parole, al di fuori del contesto del monopolio dell’editoria radiofonica di Stato e dalla perniciosa e subdola ombra della censura sulla democrazia verbale. Oggi invece, in controtendenza rispetto a allora, sono l’emblema di una radio che libera non lo è più, non per imposizione di legge, ma per il monopolio economico commerciale di grandi network e delle major discografiche.
Più che liberare la mente, le programmazioni musicali a cui siamo sottoposti come ascoltatori, ovviamente volontari, spingono il nostro cervello a un’assuefazione circoscritta a poca musica e testo, convincendoci alla lunga che quello che ascoltiamo sia il meglio della produzione musicale nel mercato e che cantanti e gruppi siano lo specchio della tendenza del momento.
Un po’ come il panettone a Natale e la colomba a Pasqua, producono in serie tormentoni per l’estate e canzonette per Sanremo. La realtà è che dall’alba al tramonto trasmettono in sequenza sempre le solite poche canzoni e qualche emittente colma il tempo mancante con tante, troppe parole. La fucina di talenti è scomparsa, si predilige investire nei personaggi televisivi accomodandoli alla meglio dietro un microfono, convinti che l’ascoltatore si fidelizzi maggiormente al programma.
Mancano autori creativi seri, voci accattivanti affrancate da passione vera e, dove ci sono, vi sono rarità di prodotto qualitativamente alto e apprezzabile. I programmi emulano il metodo TV; quando iniziano, non cambiano mai, stessi titoli, stessi conduttori che non mollano le cuffie.
Alcuni obietteranno che senza pubblicità e sponsor non si combatte contro i giganti e che mantenere il costo di un’emittente è considerevole quanto il rischio di chiudere. Sono un’idealista per natura e sono certo che, se una squadra di imprenditori coraggiosi avesse davvero voglia di rompere gli schemi monopolistici, la farebbe franca alla grande.
Pensate a un metaforico studio senza pareti e confini, dove cantautori, cantanti, gruppi di oggi e di ieri possano proporre la loro arte musicale anche senza appartenere alle grandi discografie globali!
Una brava agenzia sarebbe in grado di fare una raccolta pubblicitaria controcorrente per una radio “libera”… ma libera veramente. Se ci fate un pensiero, bussate ed io rispondo.