Novantasei giorni sono il tempo che resta a Kamala Harris per far comprendere agli elettori indecisi la propria identità politica, le sue alleanze e, soprattutto, le sue chiare posizioni in politica estera. Pochi, davvero un tempo anomalo e striminzito rispetto a campagne presidenziali strategicamente pianificate nell’arco di due anni.
Lo spin doctor che guida la comunicazione è stato in grado, in una manciata di giorni, di creare “un caso” Harris, trasformando una comunicazione paludata, più adatta a un’orazione funebre di partito e candidato, in qualcosa di “smart”, incisivo, di effetto e coinvolgente.
Tra gli elettori democratici percepisco lo stesso straordinario entusiasmo che provai nel 2008 mentre ero attivista per le primarie nel team di Hillary Clinton, un’onda travolgente di collaborazione e volontariato che però favoriva e contaminava l’avversario della partita: Barack Obama.
La comunicazione della Harris punta dritta al focus su donne, classe media e giovani, quelli che da anni ognuno si ostina a convincere e che respingono al mittente ipocrite promesse: i millennials e, in massa, la Generazione Z. Il linguaggio di Kamala si avvicina al loro modo di esprimersi e intendere i valori della vita; ora sono loro a creare tam-tam social, bussare alle porte e organizzare incontri per promuovere confronti sulla figura della candidata presidenziale democratica.
Kamala ha scelto come claim per l’impegnativa sfida “Freedom”, accostandolo a un duplice significato. Dopo tre anni è “libera” di presentarsi e dimostrare chi sia come donna e quale capacità politica abbia per aspirare a una carica mai ricoperta da una donna e men che mai da un’afroamericana. Il secondo significato rievoca e resuscita un’invocazione di libertà, oggi, e ancor peggio nel futuro prossimo, sempre più compressa da un becero populismo che nasconde i peggiori reazionari conservatori: religiosi bigotti e fanatici, razzisti, antisemiti, nazionalisti e insofferenti al progredire della legalizzazione dei diritti civili anche per le minoranze.
Quello che si percepisce per le strade, sia tra i repubblicani storicamente convinti del loro voto sia tra i democratici, è che qualcosa di cupo graviti sopra e dentro le loro case, scuole, biblioteche e posti di lavoro. Per esempio, i cristiani e gli evangelici radicali obbligano le loro scuole a pubblicare i Dieci Comandamenti, ma sostengono un candidato presidente che li ha violati tutti. Paradossalmente, chi ha giovato fino a poco fa di questo clima di paura, volto a ristabilire un ordine in grado di far regredire la società civile di cento anni, oggi è spiazzato e demonizzato nella sua ricerca di autoritarismo da ciò che pensava fosse l’arma falsamente democratica per una rielezione da ricordare nella storia. Trump non corre contro i democratici ma contro la democrazia in America.
Kamala veste, nella comunicazione, i panni della procuratrice: attacca, risponde, ma soprattutto non teme. Oggi, il candidato più anziano della storia presidenziale americana è in difficoltà al punto da volersi sbarazzare del suo vice appena nominato, e ciò che ci aspetta da qui al cinque novembre non sarà un cartone animato, ma un thriller ad alta tensione.
Molti dicono: “Non mi importa di Kamala, voto per non vedere un criminale distruggere la democrazia.”
E allora… “FREEDOM”! Perché l’invocazione di Kamala è un po’ anche la nostra, di italiani, europei e occidentali, fragili custodi di una democrazia sotto attacco.
Come sempre, incisivo, chiaro ed esaustivo.