Internazionalizzare. Un vocabolo ricorrente nelle discussioni dell’imprenditorialità italiana, di gran moda negli ultimi anni; utilizzarlo allinea agli standard procedurali che collocano le cosiddette imprese “già arrivate” a un livello d’immagine superiore. In poche parole costituisce un “trend” da imitare. Magazines specializzati, quotidiani, libri, manuali si adoperano a svelarne metodologie, strategie ma soprattutto a sfruttarne il contesto. L’abuso però, contiene sempre delle controindicazioni che, in questo caso, possiamo identificare nell’inappropriato utilizzo dell’internazionalizzare quale salvagente nel mare di una profonda crisi di mercato o inadeguatezza della nostra cultura d’impresa.
Pianificare, valutare, concretizzare un percorso che porti ad internazionalizzare la propria attività produttiva o di servizi, implica consapevolezze professionali precise. Sovente non si distingue differenza tra “esportare” ed “internazionalizzare”, quest’ultimo è un processo lento di adeguamento e integrazione industriale e sociale al territorio, mentre la prima è una semplice azione commerciale con ruoli di marginalità rispetto al tessuto sociale. Creare una rete commerciale o showroom in un Paese straniero, presuppone poche azioni standardizzate, veicolate ad hoc da una buona ricerca di mercato; realizzare invece un’investimento produttivo, destinato ad acquisire nuove quote di mercato nel Paese prescelto o, meglio ancora, individuarne in quelli limitrofi, è una concatenazione di processi che richiedono impegno, conoscenza e anche un poco di umiltà umana. Non a caso, capita frequentemente di veder fallire programmi d’insediamento proprio perché elaborati superficialmente senza tener conto di elementi imprescindibili come: investimenti economici, risorse umane ad hoc, formazione attinente metodologie operative e abitudini di vita, a volte completamente differenti dalle nostre. Attitudini alle relazioni umane, buon senso, etica nelle trattative, (in casi di difficoltà frequentemente generano azioni illecite) ma soprattutto rispetto, sono caratteristiche d’obbligo nei responsabili di programmi d’investimento oltre confine.
Ho volutamente scelto per questo titolo la citazione di Proust perché mette in luce il segreto per un buon processo di internazionalizzazione. Pur a ragione, molte volte partiamo col piede sbagliato. Abusiamo della nostra consapevolezza del “made in Italy”, prevaricando o soffocando un processo mirato ad un tangibile interscambio di elementi, necessario per ottenere ricadute di business. Riteniamo di possedere l’unica verità rimarcando i nostri prodotti o processi produttivi come i migliori pur essendo nella fase preliminare di conoscenza dell’interlocutore. Spesso, neghiamo ostinatamente che il Paese prescelto per l’investimento, abbia leggi proprie, usi e costumi, tendendo a sminuire chiunque ci ponga di fronte a realtà differenti e ostacoli per il raggiungimento di obiettivi primari. Vedere con occhi diversi, questa la chiave, permetterebbe invece di progredire celermente alla meta, ottenendo un valido supporto locale utile ad appianare quelle tipiche conflittualità generate da culture diverse. Se identifichiamo il processo d’internazionalizzazione, come ho sopra esposto in un adeguamento e integrazione industriale e sociale al territorio, allora dovremo includere obbligatoriamente un’azione di “condivisione”.Condividere implica il coinvolgimento parziale o totale di una serie di attori locali nelle nostre scelte di strategia d’insediamento. Significa trasferimento di know how culturale e professionale indispensabile per comprendere concetti o metodologie operative del territorio, è quindi auspicabile interagire al meglio con le risorse umane future, responsabili del buon andamento di produzione e gestione della nostra impresa.