Il mondo del lavoro sta cambiando. Cambia per via delle continue crisi economiche dei Paesi, per una pandemia sanitaria non prevista.
Il periodo Covid ha sferzato aziende che non hanno mai trovato il coraggio di cambiare, rimettersi nel gioco della competitività avanzata, sopravvivendo nell’auto celebrazione di ciò che furono successi d’altri tempi.
Abbiamo sdoganato l’apparente efficenza dello smart working nonostante il senso di solitudine che l’accompagna.
Abbiamo appreso nuovi metodi di relazione professionale, i digital meeting commerciali, i brainstorming via zoom attraversati da bimbi che piangono, cani che abbaiano e corrieri che suonano rendendo più divertenti riunioni che dentro l’ufficio erano di una noia mortale.
Ma soprattutto alle nuove generazioni, millennials e Z, già occupate nel mondo del lavoro ha dato modo di riflettere sul ruolo e sull’azienda per la quale lavorano.
Secondo la ricerca dell’ IBM Institute for Business Value, una persona su quattro intende cambiare lavoro nel 2021. Uno su cinque lo ha cambiato volontariamente nel corso del 2020.
Avete presente la classica frase: “ma chi me lo fa fare?”, secondo questa ricerca preannuncia il punto di non ritorno nella decisione di cambiare.
La tecnologia ha reso il lavoro possibile in luoghi e tempi diversi dal consueto e ha fatto avere alle persone una prospettiva diversa su come armonizzare la vita lavorativa e quella no.
È cambiato il modo di rapportarsi al valore del lavoro. Non è mancanza di voglia di lavorare, piuttosto voglia di farlo per se stessi e non per un fine che si è dimenticato nel tempo.
Da tempo l’aspetto economico non è l’unico fattore che porta i giovani a scegliere un lavoro, e forse non è più neanche il principale, si cerca la soddisfazione, il benessere personale. Infatti, nei colloqui con imprenditori e dirigenti delle PMI manifatturiere e servizi, emerge sempre più il grado di demotivazione di alcuni lavoratori, prima efficienti.
Le PMI adesso si svegliano dal letargo e dal mantra “produrre, guadagnare”. Ora cominciano a diventare consapevoli che le Risorse Umane di cui dispongono non sono macchine o numeri ma esseri umani in grado di ragionare, comparare e meritano quell’attenzione che solitamente è riservata loro solo nelle grandi Imprese.
Giovani senza chiare prospettive di crescita lasciati per anni senza un grazie, un aumento di livello o di stipendio. Irritazione per una maggiore flessibilità o formazione.
Queste generazioni eseguono ordini come le precedenti ma vogliono sapere il perché devono fare quella cosa.
Producono meglio quando si sentono parte integrante dell’azienda e sanno per chi lavorano.
Lo chiamano lavoro etico e chi non lo ascolta si prepari al peggio.