Quando ho letto il titolo della notizia, per un momento ho trattenuto il respiro, come se qualcosa di importante stesse accadendo nella mia vita.
Devo molto a Christopher McCandless, il giovane americano morto a 24 anni per la ricerca di un ideale estetico estremo, quello di vivere, dopo la laurea, un periodo temporaneo di solitudine, giungendo infine nelle terre dell’Alaska.
“Nelle terre estreme” il libro di Jon Krakauer ispirato alla storia del ragazzo, penetra con potenza nell’animo di chi porta dentro sé l’istinto alla libertà assoluta, quella certezza di appartenere alla terra.
Il vecchio pulmino nel quale Christopher è morto dopo centododici giorni nelle foreste e Parco di Denali, rappresenta la certezza di simbiosi con il mondo globale, fatto di uomini e donne con le loro culture, tradizioni, fedi e ideologie; ma anche di animali e dei loro istinti di sopravvivenza.
Durante il viaggio ad ovest, prima di giungere in Alaska, la storia racconta di un intercalare di solitudine e riflessione acuta con momenti di socializzazione vera, reale con le persone incontrate.
Sono quei dialoghi e le emozioni vissute a far emergere la bellezza dei rapporti spontanei, per nulla legati a finalità di comodo.
Sono quei momenti elevati, periodicamente anelati nel corso della vita, da quelli come me, impedendo accessi a chicchessia e provocando ilarità a farci sentire McCandless.
In una società iperconnessa, dove l’intimo è ridotto a password e il tutto è di tutti , “in to the wild” è la spinta al suono ed alla ricongiunzione con l’anima.
Quante volte abbia visto il film, il documentario, letto il libro, sottolineato citazioni, i passaggi più incisivi non ricordo.
Ogni volta mi approprio dell’identità di Christopher, sono io su quella U.S. 66 Route, in cima alle colline, di fronte alle onde dell’oceano, sui covoni di grano, dentro roulotte o stanze di motel fino ad immergermi nell’atmosfera primordiale della taiga, ai piedi di piante secolari altissime.
Quel discernere le crepe del sistema dal reale bisogno dell’umanità, rappresenta un punto di congiunzione con i miei ideali; l’accompagnarsi di una macchina fotografica e un blocco per appunti, la necessità di immortalare la vita nei sui punti migliori e peggiori affinché si rifletta migliorandosi.
Adesso il pulmino è nel Parco Nazionale per motivi di sicurezza, troppi escursionisti cercano emulazioni a caro prezzo.
È lì, ai piedi del Monte Denali che in lingua athabaska significa “il più grande”, come la sua carcassa arrugginita da neve ed intemperie ma simbolo universale della più ambita libertà umana.
Come rivivere quei momenti e le immagini del film con la bella colonna sonora di Eddie Wedder
Mi hanno tolto un sogno… e forse lo hanno tolto a molti molti altri.
Ciao Manuel, la penso come te. Ci sono rimasto davvero male. Quel pulmino era qualcosa in più di un ammasso di lamiere arrugginite, era la testimonianza di una libertà esercitata e vissuta come appagamento da una strumentalizzazione sociale di sistema. Grazie della tua opinione. Buona serata
D’accordo ache io, Bruno!
Buona giornata!