In questi giorni di cambiamenti sociali, molti giovani si pongono domande su quanto e come potrebbe mutare il loro futuro economico e sociale. Sono in atto trasformazioni globali in grado seriamente (ma questo già prima del Covid-19) di mettere a rischio quei processi di motivazione, inclusione e crescita sociale in ambito esistenziale.
Appartenere alla “middle-class”per molti, in questi primi vent’anni e ancor più per i trentenni di oggi, ha significato perdita di certezze e accettazione di un sistema instabile di identificazione socio-economico. Le veloci trasformazioni tecnologiche e il passaggio di potere strategico, d’informazione, politico e di marketing della Rete hanno modificato i requisiti d’accesso nel campo del lavoro.
Molti coraggiosi hanno saputo reinventarsi adattandosi, altri, abituati ad essere solo ottimi esecutori, han finito per peggiorare la propria condizione, fino a demotivarsi, cestinando ogni aspettativa.
E’ qui che entrano in gioco fattori determinanti come le politiche di immigrazione, da noi in Italia vissute solo come immagine di clandestini e profughi destinati a complicarci la vita e derubarci opportunità ma in realtà l’immigrazione, se vissuta come fenomeno interno, tra Regione e Regione, diviene opportunità.
Una efficace gestione di investimenti destinata a ricettività sociale, potrebbe cambiare radicalmente la vita di molti giovani o famiglie, oggi in grave difficoltà economica. Formazione, start-up e innovazione possono guidare questi processi anche al di fuori delle grandi aree urbane delle Regioni più ricche, creando spazi di crescita con meno ricchezza ma maggiore benessere.
Vi lascio alla storia emblematica dello Stato americano dell‘Arizona, in poche righe riassume quanto ho cercato di esporre sopra, mettendo in evidenza come le situazioni possano mutare ma anche, quanto noi le si debba cavalcare attraverso un rapido cambio di cultura. Velocità, pare sia divenuta la parola imperante del XXI secolo.
La rinascita dell’Arizona grazie ai lavoratori digitali della California (in fuga dal carovita)
La crisi del 2008 e i suoi postumi avevano colpito duramente l’Arizona: dieci anni fa lo Stato nel sud-ovest degli Usa era alle prese con pignoramenti, fallimenti bancari e un tasso di disoccupazione del 10,9 per cento, un punto in più della media del Paese. Oggi l’Arizona è in piena rinascita economica, grazie soprattutto agli immigrati della California, che stanno cambiando anche il suo colore politico, come racconta il New York Times in un articolo che spiega la potenza dei cambiamenti demografici nel determinare i destini di un luogo (un fattore che invece viene tenuto relativamente poco in considerazione nel dibattito politico, almeno quello italiano).
«Dal 2012 al 2018, una media di circa 250 mila persone all’anno è immigrata in Arizona da altri Stati, con il maggior contributo di migranti proveniente dalla California» spiega il quotidiano. «Il numero di posti di lavoro nel settore finanziario nell’area di Phoenix è aumentato del 25% dal picco pre-crisi all’inizio del 2007, rispetto al 5% a livello nazionale, con aziende come American Express e J.P. Morgan che hanno aperto o ampliato gli uffici locali, secondo Moody’s Analytics.
Le aziende tecnologiche hanno aumentato il loro numero di dipendenti di circa il 30% in quel periodo, mentre l’occupazione nel settore delle costruzioni è ancora inferiore del 24% rispetto al picco raggiunto prima della recessione». In altre parole l’economia, prima trainata dal settore dell’edilizia che è stato devastato dalla crisi dei mutui subprime, ora si è diversificata e ha reso lo Stato più ricco.
Colin Jordan è il tipico nuovo immigrato dell’Arizona: 32 anni, venditore nel settore dei software, è nato e cresciuto nella baia di San Francisco, dove aveva un lavoro che gli faceva guadagnare 90 mila dollari lordi all’anno. Molto, se non fosse che spendeva 1.800 dollari al mese di affitto per una stanza nella rimessa riadattata di un cortile interno. «Sapevo per certo che non avrei mai potuto comprare una casa» dice. «Così ho parlato con la mia ragazza, e quello è stato il nostro momento decisivo. Le ho detto: voglio comprare una casa e iniziare una vita da adulto. Vuoi trasferirti con me?». Adesso i due sono sposati e hanno per una cifra poco più alta di quell’affitto una villetta con quattro camere da letto a Scottsdale, cittadina nei sobborghi della borghesia di Phoenix.
Ciò che l’Arizona permette a lavoratori come Jordan e la California non permette più, è una vita confortevole da classe media. E questo nonostante gli stipendi nel primo Stato siano più bassi: un impiego nella finanza a Phoenix paga in media circa 77 mila dollari all’anno, rispetto a circa 110 mila dollari a livello nazionale, un posto da tecnico nel settore digitale tra gli 80 e gli 85 mila dollari, rispetto ai 110-115 mila dollari a livello nazionale. Una casa per il ceto medio di Phoenix costa in media circa 293 mila dollari, la media degli Stati Uniti è 306 dollari.
Con l’espandersi della popolazione il costo della vita in Arizona è destinato ad alzarsi, come sta succedendo in Nevada (lo Stato che la supera per boom di immigrazione interna) ma per ora la situazione è ancora molto migliore che in California. Il problema sta proprio in questa tendenza. Il fatto che lo Stato in cui si trova l’industria più ricca e dinamica degli Usa non permetta più alla sua classe media di avere una vita confortevole mostra i limiti del modello americano: un aumento enorme di ricchezza non corrisponde a un aumento di benessere.
E infatti sempre più statunitensi sono convinti che non si possa lasciar fare tutto al mercato: è uno dei motivi del fascino crescente del «socialismo», un tempo bestia nera della politica Usa, per le nuove generazioni.
Questo spiega perché Bernie Sanders ha potuto godere di un ampio consenso tra i giovani americani e la middle-class.
Fonte: NewYork Times