L’uomo nomade è più felice. Bruce Chatwin.

Negli ultimi tempi, mi capita spesso di soffermarmi a pensare quanti km abbia percorso nel mondo. Da una piccola cittadina italiana ai poli estremi dell’emisfero, per le caotiche vie di grandi metropoli urbane o in solitari sentieri in foreste o villaggi sperduti tra oceani e deserti. Mi domando come possa un essere umano trascorrere la propria esistenza in un unico luogo, il classico mantra “casa, lavoro-lavoro-casa”. Mi chiedo anche cosa abbia dovuto sacrificare per farmi ammaliare da luoghi lontani, esotici, rurali o super moderni. Di certo amicizie, il consacrare l’immobilità con la vicinanza a chi tieni paga? Forse non come si crede. Amori ? Forse ! Ma tentare di arrestare un nomade non è impresa da poco, neanche se la posta in gioco è un aritmia sentimentale. Relazioni sociali ? No. La libertà di viaggiare ed entrare in connessione con “l’altro”, con la natura e le tradizioni che ne avvolgono i residenti non ha eguali nella formazione caratteriale, mentale e spirituale. Lo si comprende quando ci si trova coinvolti in serate dove si resta imbarazzati ad ascoltare “il nulla”, ove il bagaglio personale colmo di “umanità ed esperienza” deve restare chiuso di fronte alla pochezza di molti. Come si può convivere, aggregarsi, integrarsi, confrontarsi se non si conosce il mondo ? Eppure basta andare in un bar e sentire illuminati che giudicano spudoratamente, piroettano con elucubrazioni sulle ricette esistenziali certi di possedere sempre e dovunque la verità assoluta. Libertà è sinonimo di viaggio, di conoscenza, di amore per la terra in cui vivi. Maestri come Bruce Chatwin o Jack Kerouac plasmano ancora  le mie partenze, solleticano fantasticherie sulla ricerca di emozioni sconosciute ed accompagnano  costruttive riflessioni al termine di ogni cammino. Un’appassionata di letteratura in tal senso, Cristina Biolcati, ha tracciato alla perfezione i contorni e i contenuti della narrativa di Chatwin. In essa ritrovo i miei istinti, i miei desideri interiori, le mie brame di inarrestabile nomade per le vie del mondo, abbracciato alle unicità degli abitanti. Ne posto, ringraziandola, alcuni passi, lasciando successivamente  a voi la lettura del suo l’originale .

Figlio di un ufficiale inglese di marina, ha trascorso gli anni della fanciullezza compiendo spostamenti continui e sviluppando quel suo proverbiale gusto per le letture e gli atlanti. Dopo gli studi ha intrapreso una brillante carriera presso la casa d’aste londinese Sotheby’s, diventandone in breve tempo il maggiore esperto impressionista. Ma temendo di ammalarsi agli occhi – ha rischiato addirittura la cecità -, ha presto deciso di staccarsi da una ricerca “privata” del bello, per dedicarsi a più vasti orizzonti. Ha avuto così inizio un vero e proprio “elogio al vagabondare” che, per il primo viaggio, lo ha portato in Sudan. In seguito si è recato in Marocco, Afghanistan, Patagonia, Himalaya e Australia.

Fra i temi più ricorrenti, al di là del continuo spostamento, vi è la teoria sulla felicità dei popoli nomadi, in cui l’autore britannico cerca di analizzare le motivazioni che spingono una intera popolazione o etnia a non stare ferma in un unico posto.

Il libro che ne ha decretato il successo, proclamandolo di diritto scrittore di viaggi, è la sua opera prima pubblicata nel 1977: il romanzo “In Patagonia”, accolto dalla critica come un capolavoro, e subito divenuto leggenda. Ogni tappa descritta in questo suo viaggio – fatto in pratica ai confini del mondo, dove pare che tutto abbia avuto origine da questo lembo di terra che comprende l’estremità meridionale del continente americano, annessa la Terra del Fuoco – rappresenta una miniatura di romanzo, in cui la Patagonia si rivela un luogo che fa parte della geografia di ognuno, anche di chi non c’è mai stato.

È proprio la prosa semplice ed altamente evocativa a coinvolgere il lettore. Con le opere di Chatwin non sembra di guardare un film, come può accadere con il padre della letteratura australiana Henry Lawson in “Innaffiate i gerani” che, per altro, a tratti ricorda. Oppure non è come sentir narrare un’avventura fantastica, nello stile proprio ad esempio di Coleridge. La sua peculiarità è quella di trasportare direttamente il lettore sulla scena. Siamo lì con lui, nell’attimo esatto in cui narra la storia. “Trasbordati” direttamente in terra straniera dal nostro divano di casa.

Per Bruce Chatwin il viaggio rappresenta un modo per proclamare la propria esistenza, per evadere dalla realtà, per essere liberi, per essere in sostanza “lontano da”. Al fine di non sottomettersi, il viaggiatore “fugge”, dallo Stato, dalla politica, dalla famiglia, dal matrimonio e dai vari tabu che lo inibiscono. È l’uomo libero che sceglie di spostarsi, anziché dissolversi nella moltitudine; ovviamente si parla di un “viaggio di lunga durata” e non di quello che fa la massa, che va in vacanza solo per una o due settimane l’anno.

In realtà il viaggio per Chatwin aveva un significato ben più profondo: era uno spostamento fisico, e quindi reale, ma al tempo stesso accompagnato da un percorso interiore di cambiamento e crescita personale. Un processo di formazione che ne raddoppia la valenza. Una sorta di rito di iniziazione che permette di andare sempre un po’ più in là. Di allargare i propri limiti, così come gli orizzonti.

Nei suoi scritti, come novello pioniere, Bruce Chatwin ha tracciato delle “piste” che hanno aperto nuovi spazi al lettore. Attraverso l’abilità narrativa di questo autore, possiamo quindi “partire” e vivere fantastiche avventure, rimanendo comodamente sdraiati sul nostro divano di casa. Un po’ come viaggiare, senza doversi preoccupare dei bagagli.

“LA VERA CASA DELL’UOMO NON E’ UNA CASA, MA LA STRADA. LA VITA STESSA E’ UN VIAGGIO D AFARE A PIEDI.

Brano scelto per la lettura dell’articolo : https://youtu.be/YQinzWG_p1w .

1 commento su “L’uomo nomade è più felice. Bruce Chatwin.”

  1. Come anticipatoti, ho letto il tuo articolo.

    Innanzitutto annoto gli autori da te citati in quell’elenco infinito di cui ti ho accennato… Fatto questo, proseguo (permettimelo) con un mio timido riverbero…

    «Istintivamente – tra me e me – rispondo alla tua domanda sproloquiando che l’essere umano trascorre spesso la propria esistenza nel mantra di cui parli per “paura”, “mancanza di mezzi o possibilità” o anche per “disinteresse” o “ignoranza” (e probabilmente per altro ancora…), ma riflettendoci un istante (e forse converrai con me) azzardo affermando che il vero problema è il “mantra di “chiusura” mentale, spirituale e caratteriale” che porta a imbatterti “in serate dove si resta imbarazzati ad ascoltare “il nulla”” e a “fermarti” “di fronte alla pochezza di molti” e tacere “il bagaglio personale colmo di “umanità ed esperienza”, che – da quello che indovino di te – desideri condividere e che ambisci ulteriormente ad ampliare… ed è bello… è VITA!

    Dal tuo articolo evinco come tu abbia protetto, incoraggiato, nutrito e assecondato la tua natura di “nomade”, non tradendola, nonostante “la posta in gioco sia stata un’aritmia sentimentale”… (a parte che l’espressione “aritmia sentimentale” la trovo stupenda) … un gioco che avverto “crudo” e a cui immagino hai dovuto addestrarti (non credo con poca fatica e dolore) per imparare a conviverci senza che ti ostacolasse nel tuo cammino: la libertà di essere te stesso.
    Concludendo, credo che il tuo articolo sia una testimonianza che pungola in tal senso il passo di quanti aderiscono e incarnano “il viaggio”, o meglio il significato profondo del viaggio secondo Chatwin “(…) un percorso interiore di cambiamento e crescita personale. (…)”.

    Che dirti… lieta di averti letto.»

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