In mezzo a tanta indifferenza, odio, terrore e profumo di morte che s’accosta sempre più alle nostre narici ovunque nel pianeta ci si trovi, vi sono ancora uomini e donne che vivono sul campo l’orrore di tutto ciò : guerre, torture, eccidi o stragi. Come se un’ombra s’allungasse sulla luce, giorno dopo giorno assistiamo sgomenti sempre al peggio. Viviamo in uno stato confusionale tra mille problematiche di sopravvivenza, ovvio parlo per moltitudine i pochi non solo godono ma si arricchiscono e gioiscono . Le trame di movies e videogames che solo pochi anni fa parevano surreali ad oggi paiono set completamente realizzati e in piena azione. Ecco perché ho scelto la testimonianza di uno dei tanti Medici senza Frontiere , affinché possa rendere onore al loro coraggio ed umanitario operato :
Libia: lettere dal terreno . Buona lettura
Avevamo appena terminato la seconda evacuazione di feriti dalla città sotto assedio di Misurata, agli ospedali più sicuri della Tunisia. Mentre stavo camminando sul balcone ho visto una ragazza minuta con i capelli biondi danzare da sola sotto il sole sulla terrazza al piano di sotto. Il contrasto è stato troppo forte e non sono riuscita a trattenere le lacrime.
Alcuni giorni dopo, ne sono seguite delle altre perché Ibrahim, ancora in terapia intensiva, attaccato a un monitor, a sistemi di drenaggio e a soluzioni endovenose, ha preso la mano di Kate e l’ha baciata; lei si è presa cura di lui per tutta la lunga traversata notturna con MSF. Se non avesse lasciato Misurata, probabilmente sarebbe morto. Ma ora invece vive – anche se con un’amputazione sopra il ginocchio.
Agli inizi di aprile, abbiamo portato 71 pazienti via dalla devastazione di Misurata. Sapendo che la città continuava a essere bombardata quotidianamente, con conseguenze inimmaginabili e ospedali sovraffollati, la nostra équipe ha deciso di effettuare una seconda evacuazione con la nave a distanza di 10 giorni. È stata una missione ben riuscita, grazie alle quale sono stati evacuati 64 pazienti gravemente feriti; una missione che ha rischiato a più riprese di fallire.
Date le previsioni del tempo sfavorevoli per il fine settimana e volendo evitare il mare in tempesta, abbiamo deciso di anticipare il viaggio di un paio di giorni. Ma il destino, impersonato da centinaia di pescatori tunisini in lotta contro l’aumento del gasolio, ci ha tenuti bloccati nel porto di Sfax, in Tunisia. Quella sera ci siamo imbattuti in una linea rossa senza soluzione di continuità: le luci delle barche che bloccavano l’uscita dal porto.
I tentativi delle autorità di negoziare sono stati vani e i pescatori non si sono mossi. Andrei, il nostro coordinatore delle emergenze, ha deciso allora di provare a parlare con loro. Imbarcatosi su un gommone insieme a un giovane psicologo tunisino, che lavora con MSF come interprete, si è diretto verso il blocco. Hanno avuto un rallentamento a causa del gasolio sporco e di una canoa rotta, ma probabilmente il fascino del nostro giovane psicologo e il racconto appassionato di Andrei sull’importanza del nostro viaggio hanno convinto i pescatori ad aprire un varco.
Siamo salpati finalmente alla volta di Misurata, tra gli applausi del nostro team sul ponte e con 24 ore di ritardo rispetto alla tabella di marcia. In poche ore abbiamo preparato la nave per accogliere i pazienti – una piccola unità di terapia intensiva con monitor, ossigeno e ventilatori, saldamente attaccati in caso di mare mosso, e tutte le medicine e le apparecchiature necessarie per un rapido soccorso; abbiamo steso dei materassi ovunque vi fosse un po’ di spazio e abbiamo provato a riposare, in vista delle notti successive.
Ma ci sono stati ancora degli altri ritardi: mentre eravamo in acque internazionali, a venti miglia da Misurata, siamo venuti a sapere che il porto era stato da poco bombardato. “Potevo sentire il boato col telefono satellitare”, ci ha detto Andrei. “Non era sicuro entrare in quel momento”. Eravamo preoccupati per la tragica situazione al porto, per i morti, per tutti i feriti che avevano bisogno della nostra assistenza. Il carburante stava per finire e non potevamo attendere ancora per molto. Abbiamo, quindi, deciso di andare a Malta per fare rifornimento e ritornare la mattina dopo.
Fortunatamente, un temporaneo cessate il fuoco ci ha consentito di entrare a Misurata per iniziare l’evacuazione dei feriti. In attesa delle ambulanze, abbiamo avviato le operazioni di triage. Due persone della nostra équipe, un medico e un logista, sono scese a terra per andare a verificare le condizioni delle strutture sanitarie della città. “L’ospedale principale è stato bombardato ma è ancora in funzione, così come le altre cliniche”, ci ha detto il dottor Morten Rostrup.
“Mancano medici esperti, infermieri e scarseggiano le scorte di medicine e materiale sanitario. Per questo si conta esclusivamente sugli aiuti esterni”. “L’acqua è poca e impura, l’elettricità va e viene”.
“L’altra crisi che Misurata sta affrontando riguarda i migranti, affollatisi in questa zona nella speranza di riuscire a scappare dalla Libia. Sono accampati là, sotto teli di plastica, con poco cibo, scarsa assistenza, proprio vicino alla strada. Sono 5/8.000 ma il numero cresce di ora in ora”.
Le ambulanze continuavano ad arrivare sul molo con i pazienti che dovevano essere urgentemente evacuati. Avevamo concordato di limitare a tre il numero dei feriti da attaccare alle macchine salvavita: le scorte di ossigeno erano poche e ogni paziente al ventilatore aveva praticamente bisogno di assistenza individuale. Fare questo al meglio voleva dire limitare il numero degli altri pazienti da portare a bordo per il viaggio di 12 ore verso Sfax. Con un team di tre medici di MSF e otto medici volontari tunisini, abbiamo cercato di valutare realisticamente il numero dei feriti gravi da assistere. Per concludere, quando il mare si è alzato, metà dello staff medico si è sentito male e non riusciva a lavorare.
Ho pianto quando ho visto una madre baciare e salutare il proprio figlio, in condizioni critiche – perché non è salita con lui? Alla fine siamo riusciti a partire, col compito di curare i nostri pazienti, dieci dei quali gravemente malati e tutti bisognosi di assistenza medica costante.
Abbiamo affrontato delle difficoltà – tra tanti materassi e il poco spazio, spesso seduti sulle ginocchia mentre il mare si ingrossava – per mettere flebo, cambiare le medicazioni sporche di sangue, iniettare antibiotici, somministrare analgesici; con così tanti malati – fratture, amputazioni, ferite addominali e toraciche, ferite multiple da schegge o proiettili, ferite alla testa, ustioni – non ci fermavamo un attimo. I pazienti con l’ossigeno necessitavano di attenzione costante; un ragazzo con una tracheotomia causata da problemi respiratori aveva bisogno di aspirazione. È stato difficile seguire tutto, la tensione era altissima.
Mentre cercavo di riposare un po’ intorno alle 3 del mattino, sentivo il fragore delle onde cozzare contro le finestre del piano superiore, dove avevamo preparato la nostra sala d’attesa. Il mare si stava agitando sempre di più, le onde erano alte circa 3 metri. “Il capitano ha detto che è pericoloso continuare fino a Sfax” mi ha detto Andrei. “Dobbiamo seguire una rotta diversa per agevolare la traversata. Non possiamo raggiungere Sfax”. La tempesta è durata tre ore e se ne prevedeva un’altra ancora più violenta sempre verso Sfax. Si è deciso di attraccare a Zarzis per salvare le vite dei pazienti, perché molti di loro erano sballottati dalle onde e avevano dei fortissimi dolori. Ci siamo sdraiati per aiutarli, specialmente quelli sottoposti a ventilazione, cercando di tenerli collegati all’apparecchiatura.
A Sfax ci stavano aspettando 24 ambulanze, pronte per prendere i pazienti e portarli in ospedale, mentre a Zarzis non ce n’era nessuna. Siamo dovuti sbarcare, impreparati, nel piccolo porto di Zarzis.
Le Autorità del Ministero della Sanità e dell’ Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sono venuti sul molo per aiutarci a far fronte alla situazione insieme ai barellieri della Mezzaluna Rossa; ma Sfax era a quattro ore di distanza e sembrava che le ambulanze attrezzate per i pazienti più critici non arrivassero mai. Abbiamo pensato di chiedere degli elicotteri, ma c’era troppo vento ed era pericoloso. Non ci restava che aspettare.
Finalmente anche il paziente più grave è stato portato via. Dovevamo trovare gli ospedali per i 60 pazienti rimasti, cercando quello più adeguato per ciascuno di loro. “Identifica dieci pazienti in grado di affrontare un viaggio di tre ore in un mini-bus”, mi ha chiesto Alice, un medico dell’OMS. “Identifica due dei pazienti più gravi che hanno bisogno di stendersi in ambulanza e due che possono sedersi, che non hanno bisogno di assistenza”. Abbiamo lavorato tutto il giorno, dopo un giorno e una notte di viaggio ed eravamo davvero al limite delle nostre forze.
Ho accompagnato in ambulanza un giovane, Adbelmajid, gravemente malato e col viso segnato dal dolore e dalla paura, che mi ha fatto un gesto, abbassando gli occhi. “Che sta dicendo?”, ho chiesto al paramedico che ci accompagnava in ambulanza. “Dice che ti vedrà ancora una volta,” mi ha risposto. Ho sperato che fosse vero.
Pochi giorni dopo Kate e io abbiamo visitato gli ospedali di tutte le città in cui i pazienti sono stati portati per controllare le loro condizioni. Siamo stati accolti da applausi e sorrisi e molti grazie. Tutti stavano guarendo; soltanto un ragazzo era ancora in condizioni critiche in terapia intensiva. Ma dov’era Adbelmajid? Stavamo nell’ultimo ospedale e avevamo appena visitato l’ultimo reparto. “C’è solo un paziente in terapia intensiva”, ci ha detto un chirurgo tunisino. Ho trattenuto il fiato e siamo entrati nell’unità. Ed era lì. Ancora malato, ma vivo e in fase di miglioramento. Ci ha sorriso appena ci ha visto.
Quella sera ci siamo ritrovati sul terrazzo della nostra casa a Zarzis, guardavamo il riflesso della luna che brillava sul mare, incorniciato da sagome di palme. Era tutto molto tranquillo.
“Il Paradiso può essere molto vicino all’Inferno”, ha detto Andrei.
L’ha ribloggato su *Costell@zioni Spiritu@li*.