La terza rivoluzione industriale secondo J.Rifkin

Se non avete un cuore aperto alla speranza di un mondo migliore, tornate pure a fare web surfing. Non leggete oltre. Perché, se aprite uno spiraglio su Jeremy Rifkin, vi si spalanca una porta troppo grande e pesante perché possiate richiuderla.

Nel suo ultimo saggio, dal titolo “La terza rivoluzione industriale”, Rifkin sostiene che l’era del petrolio è al tramonto, come si comprende da almeno due avvisaglie fondamentali: la prima è il declino dell’economia a partire da quando, nel 2008, il prezzo del petrolio è schizzato a poco meno di centocinquanta dollari al barile e di conseguenza sono aumentati i prezzi di tutti gli altri beni; la seconda è l’estrema difficoltà a concludere le periodiche conferenze internazionali sul clima con qualcosa di più di generiche promesse.

Il che fa nascere ipotesi anche drammatiche: «Se entro la fine del secolo la temperatura aumenterà di tre gradi centigradi, torneremo al Pleistocene. Rischiamo di assistere all’estinzione del settanta per cento della biodiversità di questo pianeta entro il 2100», profetizza Rifkin.

E così, se la prima rivoluzione industriale riguardava prevalentemente il settore tessile-metallurgico, con l’introduzione della macchina a vapore; se la seconda viene fatta convenzionalmente partire dall’introduzione dell’elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio, per Rifkin la terza rivoluzione industriale è quella che dovrebbe portare alla democratizzazione dell’energia: per cominciare, stop ai combustibili fossili che stanno distruggendo l’ecosistema e via libera a un’energia autoprodotta da condividere fra tutti gli utenti, come accade oggi con il web; poi, per garantire il risparmio energetico, bisognerà affiancare alle fonti rinnovabili anche bioedilizia e bioagricoltura; infine, si dovrà lavorare sulla trasformazione dell’energia in idrogeno, sul suo immagazzinamento e sulla successiva distribuzione attraverso i grandi network continentali.

A voler conoscere un po’ più a fondo questo personaggio geniale, scopriamo che Jeremy Rifkin, dopo essersi laureato in Economia e in Affari internazionali, è stato attivista del movimento pacifista negli Stati Uniti degli anni ’60-’70, tanto da istituire una commissione di cittadini con lo scopo di rendere noti i crimini di guerra commessi dagli americani durante la guerra in Vietnam.

Il suo attivismo ambientalista negli Stati Uniti, inoltre, lo ha spesso spinto a sostenere l’adozione di politiche governative “responsabili” in settori strategici quali ambiente, scienza e tecnologia. Un impegno pubblico che si è riversato in numerosi saggi sull’impatto dei cambiamenti scientifico-tecnologici su economia, società e ambiente.

Nel 1995 scrive “La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato”, in cui prevede –  entro pochi anni – il definitivo trionfo delle macchine sul lavoro umano e propone soluzioni per ridurre l’impatto sociale di questa trasformazione e addirittura trarne vantaggio.

Nel 2010 esce in Italia il libro “La civiltà dell’empatia”, in cui Rifkin valuta lo sviluppo della società in relazione alla capacità di empatizzare tra individui, ossia di immedesimarsi nei sentimenti del prossimo fino a sentirli propri. Nel saggio l’autore sostiene che l’empatia sia una caratteristica che ha dato un vantaggio evolutivo all’uomo e che sia un ingrediente fondamentale per la società. Questa tesi è contrapposta alla dottrina dell’utilitarismo, secondo cui l’uomo agirebbe solo per aumentare il proprio piacere personale, mentre il progresso della società avverrebbe solo grazie alla competizione tra individui per lo sfruttamento di risorse scarse.

Lo scrittore si chiede se l’umanità sarà in grado di sfruttare il fenomeno della globalizzazione per migliorare la società grazie ad un “salto empatico” oppure se l’entropia (il caos) derivante dal crescente consumo di risorse provocherà una regressione nella capacità di empatizzare fra individui e quindi nel modello di società possibile.

Se vale l’adagio dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei, Rifkin, da buon vegetariano, è una persona sensibile e attenta alla vita in ogni sua espressione. E’ del 1992 il saggio contro quella che chiama la cultura della bistecca, “Ecocidio”, un cult del pensiero vegetariano e animalista.

Un uomo eccezionale, dei nostri tempi, che – a volergli dare ascolto – può contribuire a formare una cultura globale più improntata al rispetto del pianeta Terra e dei suoi abitanti.

Un profeta moderno, evangelica “voce di uno che grida nel deserto” di raddrizzare i nostri sentieri, di spianare la via verso il bene. Prima che sia troppo tardi.

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